Storie che hanno fatto la nostra storia: l'alluvione in Romagna

 

Storie che hanno fatto la nostra storia. Abbiamo voluto dare inizio a questa rubrica di racconti per ricordare e dare valore alle storie quotidiane di ciascuno di noi: storie di donne e uomini che credono nel valore del volontariato e hanno trovato nella Croce Rossa Italiana un modo per aiutare chi soffre ma anche una grande famiglia che li supporta e li unisce, nell’incarnazione del principio di Umanità.

Come a tutti noto le alluvioni ed esondazioni in Emilia-Romagna di maggio 2023 hanno sconvolto un’intera comunità. Il bilancio è drammatico e le necessità in continuo aumento. Fin da subito i nostri volontari sono stati in prima linea in questa emergenza, sostenendo la comunità colpita e ascoltando ogni richiesta. Abbiamo raccolto la testimonianza di Mario, volontario ventottenne del nostro Comitato, partito con il primo contingente di CRI Puglia: «Quella in Romagna per me è stata la prima esperienza di emergenza nazionale, non ero mai partito con una colonna mobile. Sapevo di essere tecnicamente preparato per la missione e i contesti difficili non mi hanno mai spaventato, e quindi ero più curioso che preoccupato di capire che situazione “umana” avrei vissuto, visto anche che non conoscevo nessun collega. Dal momento in cui ho messo piede sul pulmino il gruppo della Puglia si è rivelato una famiglia: i volontari più grandi erano pronti a prendersi cura degli altri, e quelli più piccoli una fonte di energia inesauribile. Idem una volta giunti al campo, condividere tutto con oltre 100 sconosciuti da tutta Italia mi ha fatto capire quanto “tutti fratelli” sia il motto giusto per la CRI, mi sono sentito a casa. Dopo una giornata di lavoro impegnativo, fango e sudore anche solo ricevere una pacca sulla spalla, o uno sguardo di assenso da un collega appena conosciuto era una fonte di conforto ed energia. È incredibile vedere come tutto questo affetto, spirito di fratellanza e di condivisione anche emotiva si combinino con una professionalità assoluta. Una volta scesi dai mezzi e indossati caschetti il focus sulla missione era totale, si lavorava con precisione e metodo, nulla lasciato al caso. Anzi eravamo insofferenti verso i (fisiologici) tempi morti, non volevamo fermarci mai, essere attivi e portare avanti il lavoro era la priorità assoluta. “Con l'uniforme addosso non ci si ferma” è una frase che ho detto e sentito più volte.
È una questione di responsabilità prima di tutto verso la popolazione. Anche per loro, passata l’adrenalina dei primi giorni di crisi subentra la fatica, la coscienza dei danni subiti e delle difficoltà che ancora dovranno affrontare nei prossimi mesi. Il rapporto dei volontari con la popolazione è altalenante, oscilla dall’adorazione assoluta all’insofferenza, ma siamo pronti anche a questo. Non posso non pensare che entrambi eravamo immersi nella melma fino alle ginocchia, ma noi volontari avevamo una casa pulita a cui saremmo tornati dopo pochi giorni, loro avevano perso tutto. E ogni momento di nervosismo delle vittime diventa perdonabile, ogni gesto di dolcezza e gratitudine è moltiplicato per 10, fosse anche solo una tazzina di tè dissetante a fine giornata. Per non parlare dello sguardo commosso e incredulo quando si rendevano conto che venivo da 600 km di distanza, “solo” per aiutare loro e senza chiedere nulla in cambio. Io ho vissuto a Forlì per un anno, mi sono laureato lì, ho un legame speciale per quella città, ma non è per quello che sono partito. È una cosa che ti viene da dentro, o ce l’hai o non ce l’hai, non si può spiegare razionalmente».

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